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9x9%. Riquadri, input e suggestioni sull’organizzazione militante autonoma

Hiroko

«As-sha'b yurid isquat al-nizam!». È questo il boato che esplode nella casbah di Tunisi tra fine dicembre 2010 e l'insurrezione del 14 gennaio 2011. «Il popolo vuole la caduta del regime», e il regime ultra ventennale di Ben Ali crolla. La sequenza è nota. Seguiranno piazza Tahrir, le acampadas, il We are the 99% di Occupy Wall Street e tanto altro. La prima grande risposta di parte proletaria alla crisi economica del capitalismo statunitense, spesso equiparata a quella del 1929, e della quale non si è ancora vista la fine. Quel boato echeggia in Italia quasi in contemporanea, con la sommossa del 14 dicembre 2010 in piazza del Popolo a Roma, rimbalza con l'esplosione estiva della Val di Susa, arriva ai cancelli della logistica e al fatidico 15 dicembre 2011. Un corteo enorme sul quale le componenti organizzate elaborano prospettive politiche in scontro tra loro. A prescindere dai punti di vista, delle “ragioni” e dei “torti”, un'occasione mancata su cui non si è mai fatto un vero e pacato bilancio critico. Molti nodi, che in parte si portano dietro anche dal G8 di Genova, sono ancora lì, irrisolti. Il colpo d'ali di farfalla di piazza Tahrir ha effetti a catena in tante piazze del globo e un nuovo ciclo si stava costruendo nel 2019-2020, interrotto dalla pandemia. L'Italia ha avuto invece altre dinamiche, di fatto non entrando in quella concatenazione. Non è questo il contesto in cui vogliamo approfondirle, ma il nodo di come pensare le forme dell'organizzazione ci pare urgente a partire da una fotografia di quel poco che c'è oggi, per lo più riprodottosi con le stesse “forme” di 10 o 20 anni fa. E non è un segno di salute. Gli stessi nodi irrisolti, dicevamo. Sia di tipo pratico che di tipo teorico. Quel 99%, quel popolo sopra evocato, è in fondo ancora lì che ci parla, con la sua ambiguità. Altra questione che merita decisamente altro spazio per poter essere qui affrontata. Quello che ci proponiamo qui di fare piuttosto, a partire da questa ipersintetica inquadratura, è un contributo di discussione sull'organizzazione a partire dal summenzionato “sguardo italiano” (con tutti gli auto-evidenti limiti di questa affermazione, ma anche gli inaggirabili nodi che non si può far finta di eludere ideologicamente in proposito). È un'elaborazione di natura realmente collettiva frutto di lotte, discussioni, assemblee, tentativi, scazzi, che prova a entrare in dialogo con differenti generazioni militanti, indicando un campo di discussione con una cornice genealogica, alcune assunzioni teoriche, e rilasciando riflessioni rispetto al sostanziale “vuoto” organizzativo lasciato dal tramonto di centri sociali e annesse aree politiche in Italia. Si tratta di nove punti x nove punti, a comporre due parti che possono essere lette in modo indipendente, in sequenza, o al limite anche saltando tra i vari passaggi come in una matrice di discussione aperta da scomporre e ricomporre. Sono sostanzialmente appunti, i primi nove di taglio eminentemente teorico, i secondi con l'ambizione di entrare più nel merito di alcune pratiche, forme e dinamiche organizzative. Per efficacia argomentativa hanno una forma che può richiamare un “manifesto”, ma nella pratica intendono più che altro provare a stimolare e smuovere un dibattito per fare un salto collettivo al di là dell'attuale impasse che viviamo come militanti.

9x - Deformazioni delle traiettorie. Spunti di discussione sull’organizzazione politica autonoma nell’Italia degli anni Venti del XXI secolo

UNO: genealogie autonome.

Partiamo da un posizionamento. Questa riflessione si colloca in una traiettoria storica che affonda le sue radici nelle pratiche e nelle elaborazioni autonome/operaiste italiane dell’ultimo cinquantennio, senza nessuna ambizione di “completezza”, ça va sans dire. Iniziamo dal dichiarare una profonda crisi di questa genealogia. Potrebbe venire facile, per aprire la riflessione, andare sul classico: come non buttare il bambino con l’acqua sporca? Ma è una metafora fuorviante, in cui sembra che la questione si ponga tra l’essenza (il bambino) e la sua corruzione (l’acqua sporca da rimuovere).

Sporchiamo invece questa genealogica, tradiamola. Come sempre, viva l’eresia! Senza però cadere in un esercizio cui purtroppo si assiste spesso, ossia il mascherare questo bagaglio sovversivo con posticci postmodernismi – che poi sono opportunismi mascherati – o con enormi dosi di ego del dichiararsi apostoli e custodi di tale storia.

Non si tratta qui di sancire gli “anni zero” o simili (da quale “legittimità” poi? E, soprattutto, a chi interessa?), quanto di porre con sincera necessità militante un tema di discussione che troppo spesso si elude. Quello dell’organizzazione, come sollecitato da Teiko. Collocandolo spaziotemporalmente, e aprendolo in avanti.

DUE: definiamo l’organizzazione.

Che cosa significa, dal punto di vista della storia rivoluzionaria autonoma, organizzazione? In termini modellistici potremmo rispondere: creare la mediazione politica tra autovalorizzazione e determinazione dei meccanismi/processi di estinzione del lavoro e dello Stato.

Costruire organizzazione, in altre parole, serve ad articolare tattica e strategia tra l’autonomia della classe e la necessità politica di un corpo militante che detti i passaggi per approfondire le possibilità di lotta che consentano l’affermazione di una autonomia proletaria, di classe, del comune, di fronte al capitale e alle sue istituzioni.

Un’organizzazione autonoma di classe è dunque una dinamica che non pensa il “partito” come un avanguardismo giacobino, come un modello basato sull’autonomia del politico e su un personale politico che si autonomina dirigente.

Indica una tensione politica (per lo più irrisolta) tra contraddizioni sociali aperte dalla lotta di classe e contraddizioni definite dallo sviluppo capitalistico. E parla di una storia che non è “progressiva”. L’organizzazione si ripropone continuamente come problema vecchio e nuovo al contempo, sia per coloro che anche oggi vorrebbero servirsene sia per coloro che vorrebbero invece sbarazzarsene.

TRE: su cosa si basa l’organizzazione?

Come si articola un progetto di “partito”? Vasta questione… Possiamo dire in modo evidentemente schematico che la linea sottile su cui si muove è la giunzione tra le linee di oppressione e quelle di soggettivazione, sulla – non scontata – articolazione tra la composizione tecnica e la composizione politica di classe.

C’è quindi una “base materiale” (che va di epoca in epoca inchiestata e definita e che indica le linee del “programma”) e una serie di “campagne politiche” che a partire da essa possono esprimersi. Queste ultime, storicamente, si sono definite a partire dalle forme del lavoro (operaio), dalle lotte sulla riproduzione (spesa pubblica), dalla critica della tecnologia e della scienza e del loro impatto sui corpi-territori, dal rifiuto dell’autoritarismo.

L’efficacia dell’aprire e difendere spazi di lotta e dello spingere in avanti le possibilità e le forme di contropotere si definisce dunque a partire da una produttiva circolarità tra le spinte di classe e la qualità soggettiva del quadro politico organizzato (militanti di base, avanguardie di lotta, quadri intellettuali, dirigenti sociali, etc.).

La sfida è sempre dunque quella della formazione di un nuovo personale politico. Questo esige strutture di formazione, di discussione politica, di direzione. Esige una strumentazione adeguata (mezzi di comunicazione, strutture, risorse). Esige soprattutto la formazione di nuove strutture complessive del movimento che eccedano le micro-organizzazioni (ad oggi, quello che c’è, ma certamente non sufficiente).

QUATTRO: quale forma dell’organizzazione?

I lineamenti di una organizzazione per come sinora abbozzati sono sicuramente difficili da scrutare oggi. Ma possiamo subito dire che ci sono due “forme” rispetto alle quali si può prendere una posizione. Una teoria autonoma dell’organizzazione, in primo luogo, è quella che si definisce con, per e attraverso una politica di massa. Ossia una minoranza-agente che nell’ampliare le possibilità collettive di azione trova la sua legittimità.

La crisi di oggi non è legata all’assenza di forme di massificazione di lotte e conflitti, quanto a una difficoltà organizzata di garantire a queste una possibilità di sedimentazione, continuità, ottenimento di “risultati”. Una crisi che distrugge, certo. Ma la crisi libera. Bisogna fare della crisi la chiave di ricostruzione ritrovando la mediazione tra autonomia sociale e autonomia politica, e in secondo luogo portando l’autonomia politica al confronto con lo schieramento nemico in tutta la sua complessità.

In secondo luogo, la sfida è sempre quella di andare oltre i limiti storici mostrati, nel Novecento, da una concezione del partito centralistica e rappresentativa sul terreno della teoria dell’organizzazione, senza al contempo abbandonarsi a una sorta di “mano invisibile” che dovrebbe comporre un quadro organizzato.

La polemica all’interno del “movimento” si è continuamente sbattuta fra il polo della centralizzazione e quello della diffusione, fra il feticismo della continuità con i modelli ereditati e un’acritica, immediatistica e passiva accettazione delle forme esteriori del distendersi sociale delle lotte. Come possiamo andare al di là del feticcio del Partito come forma astorica e al di là di una teoria dei microgruppi organizzati basati sulla moltiplicazione delle lotte e dei soggetti – senza mediazioni su un livello più alto?

CINQUE: quale organizzazione è emersa nell’ultima fase?

Se accettiamo che la questione dell’organizzazione non sia una ricetta trascendentale da applicare ma una continua invenzione, è evidente come una ricerca su di essa si basi sempre sull’analisi della fase politica che si attraversa. Oggi siamo di fronte a un salto. Il combinato disposto di pandemia planetaria, congiuntura di guerra, accelerazione bruciante dell’innovazione tecnologica, multipolarizzazione del mondo, ci proietta in una nuova epoca.

Il ciclo che ci lasciamo alle spalle ha definito uno scarto molto radicale tra i movimenti di massa e le forme della loro organizzazione. È proprio quello scarto il problema che ereditiamo e che dobbiamo rilanciare in avanti.

La lotta di classe degli anni Dieci si è inoltre per lo più espressa su livelli di massa come istanza di “difesa” della vita da un capitalismo abile a combinare rapacità estrattiva e creazione di continua innovazione. Le rivolte e insurrezioni che hanno attraversato le metropoli del pianeta, richiamate nell’introduzione, le “vite nere che contano” di fronte alle violenze poliziesche, il grido di “non una di meno” contro la violenza patriarcale, le piazze ecologiste contro “un mondo che brucia”, la difesa dalla precarizzazione del lavoro, il grido globale contro il genocidio in Palestina.

Queste traiettorie cosa ci indicano? Che quel che non siamo collettivamente riuscite a produrre è un framework che spinga per un salto oltre i collettivini-partito, i piccoli gruppi, le singole direzioni. Che una domanda di organizzazione è rimasta inevasa nella possibilità di articolare su una dimensione più ampia le traiettorie di mobilitazione che si sono espresse.

SEI: una specificità italiana.

Dalla prospettiva di militanti che vivono in Italia, cos’è che non ha funzionato? Partiamo da questo sguardo specifico, con la sua genealogia piuttosto chiara nell’Autonomia degli anni Settanta e nella sua capacità di continuità storica nonostante le sconfitte, gli errori, la repressione.

Da quella che in termini semplificati possiamo chiamare la fu galassia dei centri sociali, dai circoli del proletariato giovanile dei Settanta agli spazi di resistenza dentro il riflusso degli anni Ottanta, a una nuova vita sociale negli anni Novanta, fino all’ultima esperienza dei primi anni dei Duemila, coi tentativi di una nuova generazione di spazi che arriva fino all’Onda – e poco oltre.

Quella “forma ereditata” di organizzazione è al tramonto da quasi un ventennio, terminata assieme al suo corrispettivo delle “aree politiche”. Non che non esistano oggi tanti centri sociali e magari anche tante piccole aree politiche, ma possiamo tranquillamente dire che siamo di fronte a una sostanziale irrilevanza.

Una fine dovuta (anche) al radicalissimo cambiamento socio-territoriale (digitalizzazione, ad esempio) che ha ridefinito i termini del problema organizzazione-territorio. Quel che c’è oggi non va “buttato via”. Ma servono evidentemente strade nuove da immaginare e percorrere.

SETTE: so… what?

Quindi, “banalmente”, che fare? Ripartire dalle fondamenta, dai principi, è sempre esercizio utile. Contro cosa ci organizziamo, per cosa ci organizziamo, come ci organizziamo, con chi, dove? Tutte domande che devono riattraversare il dibattito militante oggi provando ad aprirle a nuovi campi sociali.

Facendo giocare insieme la conoscenza della serie di irrisolti storici sull’organizzazione che abbiamo alle spalle con la necessaria creazione di nuovi esperimenti per le generazioni militanti che si affacciano alla politica antagonista in questi anni Venti del XXI secolo.

Sporcare la genealogia autonoma-operaista con altre storie, senza scorciatoie né semplificazione, in ascolto con altri contesti ma senza improbabili copia/incolla. Tradurre, tradire, conoscere, inventare… Ri-tematizzare gli irrisolti organizzativi che contrassegnano questa storia che rimangono tuttora sul piatto. Ci torneremo con la seconda sequenza di nove punti.

Oggi c’è un vuoto politico in proposito. Se le aree politiche si sono per lo più rivelate come una “costituente di partito” che non si costituisce mai, il ritorno al “partito” non può certamente essere la risposta ritrovata. Meglio. I vuoti in politica non esistono. Ma l'impressione è che quel vuoto sia riempito in maniera debole e precaria da ripetizioni che non soddisfano né rilanciano le esigenze lasciate sul campo da quel vuoto.

OTTO: nuove sfide.

Anche perché le nuove sfide che abbiamo davanti sono talmente scompaginanti che non è davvero il caso di guardare indietro per provare a rispondere. Basti citare qui la conflagrazione tra territorialità e dimensioni transnazionali, o il volto cangiante che esprime la classe oggi, per entrare nella vertigine di cosa significhi organizzazione.

Quello di cui abbiamo probabilmente bisogno è in primo luogo di una certa “serietà” nel discutere il problema. Creatività organizzativa, rifiuto dell’idea liberale della mano invisibile dell’orizzontalismo nella decisione politica così come dell’idea “realista” della politica come dimensione “sovrana”, esterna, metafisica al sociale.

Abbiamo un archivio di esperienze da superare, avendo visto materialmente i limiti insuperabili della forma-collettivo che si pensa partito in miniatura, del movimento-partito composto da élite auto-nominatesi e disincarnato dal sociale, dei piccoli gruppi pronti a saltare sul carro “quando arriverà il momento”, così come dell’eterno ritorno dell’eguale organizzativo… Il panorama organizzativo che abbiamo abitato/abitiamo, il nostro punto di vista situato, va stravolto.

Tenendo a mente l’orizzonte della costruzione di nuove forme di potere collettivo e di come esso possa prodursi solo attraverso uno stravolgimento anche della sua biopolitica interna. L’organizzazione, la continuità-durata-incisività delle lotte e degli effetti materiali del contropotere, è infatti in primo luogo e alla fine dei conti una cosa: le/i militanti.

NOVE: spunti in avanti.

Chiudiamo questa prima parte con alcuni spunti, alcune tracce di riflessione per stimolare un processo collettivo di ricerca di nuove forme di organizzazione politica. La sfida è quella di immaginare una dinamica, un ecosistema, un processo, multilivello.

Su uno “strato”, la questione militante. Formazione, inchiesta, capacità di tenuta e riproduzione di un ceto politico “rivoluzionario”. E di conseguenza: strutture, strumenti, spazi, dimensioni sociali di traino.

Su un altro “strato”, la possibilità di calamitare una serie di capacità e competenze oggi sminuite e svalorizzate a livello sistemico da ri-valorizzare in ambiti di lotta, dai media e alle nuove tecnologie ai campi della cura e della riproduzione sociale.

Su un terzo “strato”, la creazione di nuove territorialità: infrastrutture, hub, piattaforme, ecosistemi territoriali, e la loro capacità di sintonizzarsi a livello planetario con le correnti di conflitto che hanno segnato a livello transnazionale l’ultimo decennio, contribuendo a una serie di “effetti contagio” planetari.

Un nuovo sincero esercizio collettivo, polemico, senza dubbio, ma anche umilmente “costituente” e contro l’egocentrismo che purtroppo spesso continua a caratterizzare i nostri mondi, è quello che serve. Mettersi a disposizione per una nuova avventura collettiva, in un momento storico che è durissimo ma che proprio per questo motivo riapre come non mai delle possibilità radicali.

Copertina del primo numero di Teiko

©DR

x9 - Creare infrastrutture. Suggestioni sull’organizzazione militante

UNO. Da dove partiamo.

Premessa, necessariamente schematica. Rilanciamo il precedente campo di ragionamento per aprirlo su un terreno più specifico, che parte da alcune “basi” problematiche di ragionamento. Come organizzare il molteplice, filosoficamente. Come comporre il sociale, sociologicamente. Come fa politica la “persona planetaria” di oggi, antropologicamente. Come agire nella territorialità interconnessa e aumentata, geograficamente. Come sviluppare progetto politico, storicamente. Come creare infrastrutture di lotta, urbanisticamente. Come fare politica all’epoca del general intellect capitalistico dell’AI, “tecnologicamente”. E sicuramente si potrebbero mobilitare molti altri sguardi per inquadrare il nostro problema. Ma facciamo un salto di scala. In un momento piuttosto “arido” per un’ipotesi rivoluzionaria, nell’Italia di oggi, da dove ripartiamo collocando le coordinate di cui sopra?

DUE. Nuove geometrie.

Seccamente: nella lunga crisi delle forme politiche sovversive (dai partiti ai sindacati del Novecento, dal tramonto delle aree politiche dei centri sociali alla debolezza delle forme dei movimenti “digitali” di massa degli ultimi anni), quali nuove ipotesi organizzative possiamo provare a sviluppare? Si sono esaurite alcune geometrie classiche, il fuori/dentro del partito rispetto alla classe, la divisione politico/sociale tra partito e sindacato, lo schema organizzativo a network (centro sociale e area politica, punto e rete). La sperimentazione di nuove “forme” è dunque un qualcosa su cui lavorare. Non si tratta evidentemente di “mettere insieme quello che c’è” come sommatoria politica. Ma mettere insieme quello che c’è, socialmente, e costruire e inventare quello che non c’è, una forma organizzativa (contingente e situata) che lo potenzi, e gli dia durata, in questo deserto, politicamente. Qui il tema dell’organizzazione.

TRE. Di pieni e di vuoti.

Nuove ipotesi organizzative non ci pare siano state ipotizzate dai movimenti degli ultimi anni. Questo non vuol dire che dobbiamo allora “tornare indietro”. Mai abbandonarsi al crogiolo malinconico. Certo, alcune analogie sono inquietanti. Ma non stiamo “tornando” alla Prima guerra mondiale e al fascismo, né agli anni Trenta e a una Seconda guerra mondiale. Atomizzazione, volatilità, forma “a sciame”, sono le forme sociali contemporanee, un altro pianeta rispetto a quelle epoche. Forme oggi egemonizzate da un “autoritarismo liquido”, violento e pericoloso, ma che non ha una massa addestrata militarmente come sua base. Per quel che riguarda noi, invece, come lavorare sul campo di tensione che si è definito tra la potenza delle maree sociali degli ultimi 15 anni (dai riot e insurrezioni planetarie ai movimenti transfemministi, ecologisti, della Palestina globale) e la debolezza delle loro strutture organizzative?

QUATTRO. Spunti.

Una proposta di lavoro da discutere: dobbiamo costruire ecosistemi territoriali e infrastrutture sociali. All’organizzazione di massa si è sostituita una bizzarra combinazione tra orizzontalismo e iper-gerarchia, attivazione sociale fugace e una leadership di influencer mediatici. In una battuta: abbiamo bisogno di meno orizzontalismo e di meno gerarchia. E va colmato un vuoto rispetto alla possibilità con cui abitiamo quotidianamente e politicamente i territori e la capacità di galassie territoriali organizzate e interconnesse, assemblaggi e comunicazioni veloci digitali, di farsi spazio e di incidere sul tempo sociale.

CINQUE. “Massa”.

Una nuova politica di massa, continuativa e quotidiana. Non se ne esce. La “massa” c’è nello spazio, ma fatica a consolidare la sua presenza, a generare riverberi, aprire concatenazioni e contaminazioni. Una massa che, di nuovo, non è quella storica del Novecento, ma è una massa più complessa e ricca, più individualizzata, più fatta di monadi, meno sincronizzata. Per immaginare una nuova militanza di massa, una minoranza-agente non elitaria o gruppettara, c’è bisogno di nuovi progetti organizzativi. Su questo uscire dalla visione dei “centri” e ragionare sulla creazione invece di “infrastrutture” può essere d’aiuto. Dicendo subito che, evidentemente, le infrastrutture non sono neutre, è di parte il loro “design”, la scelta dei loro “materiali”, cosa e come interconnettono, cosa e come “tagliano” ciò che c’era prima della loro costruzione.

SEI. Ecosistema.

Lo sciopero in un magazzino logistico e una piazza transfemminista; un comitato territoriale e una manifestazione pro-Pal; una scuola occupata e una azione ecologista; un corteo metalmeccanico e un circuito mutualistico; una rivolta e una molteplicità di pratiche quotidiane molecolari di solidarietà, rifiuto e ribellione; movimenti migranti e vita sociale in spazi autogestiti; occupazioni abitative e sperimentazioni istituzionali; un pride e una fabbrica o un campo auto-recuperati; e potremmo a lungo continuare… Questa galassia non può essere organizzata facendo dei “centri sociali” che la contengano, ma può articolarsi attraverso “infrastrutture sociali” che la orientino e ne moltiplichino la potenza. Organizzarsi “a infrastruttura” indica evidentemente la necessità di immaginare una nuova militanza politica, mobile, che dovrà anche scontrarsi di continuo con una mole inedita di contraddizioni, spesso anche molto violente. Indica un necessario “scarto di complessità” da compiere. Come suggestione: dall’immagine della Rete degli anni Novanta, fatta di punti e linee connettive che creavano una rete, un network, a una nuova AI organization.

SETTE. Infrastrutture.

Ma cosa vuol dire infrastrutture sociali? Significa creare delle aree urbane ad alta tensione e delle interconnessioni su scala ampia. Costruire delle “trame territoriali”, delle “linee di codice” sociale in grado di farsi bug e di contro-circolare nella spaziotemporalità planetaria contemporanea. Muovendosi sulla tensione tra la continua moltiplicazione delle forme del lavoro e dello sfruttamento, l’eterogeneità dei territori contemporanei, e la necessità di una circolazione che lavori sui tratti comuni, sulle intese, le solidarietà, gli incontri, le possibilità politiche di sovversione e liberazione. Come tenere insieme contropotere infrastrutturale, che disegna le infrastrutture, e contropotere sociale, che fluisce in esse e al contempo le scompagina? E come i flussi sociali spaccano le infrastrutture precedenti? Organizzarsi in infrastruttura significa evidentemente superare il panorama organizzativo contemporaneo, costruire articolazioni stabili in grado di porsi sia il problema dell’offensiva che della difensiva.

OTTO. Conflitto e autonomia.

Costruire (contro)territorialità, conquistare tempo politico oltre l’hype dell’evento. Definire dei mezzi per cristallizzare in infrastrutture organizzative durature le contrazioni e le agitazioni sociali di oggi, che spesso replicano i cicli brevi dei mercati finanziari e dei nuovi media. Se, come circolava un po' di anni fa nei movimenti ecologisti, «l’ambientalismo senza lotta di classe è solo giardinaggio», anche un’infrastruttura sociale deve riuscire a tenere insieme la costruzione di ecosistema sociale con la pratica dell’autodifesa e dello scontro, autonomia e conflitto. E il suo orientamento politico, oggi, non può che essere quello del sabotaggio e della diserzione dal contesto bellico che sta montando come orizzonte strategico e del lavoro nel qui e ora per una vita bella e una autodifesa come ambito quotidiano. Né schegge insurrezionaliste né il lungo periodo delle linee socialiste per una nuova società, ma la ricerca di un nuovo spaziotempo dell’azione politica insorgente e di costruzione di mondi.

NOVE. Orizzonti.

Dunque, ricapitolando. L’idea su cui proponiamo di ragionare collettivamente è quella del fare un “salto” nel modo in cui pensiamo l’organizzazione. Certo, nella congiuntura attuale la capacità di tenere una “retroguardia” organizzativa con radicamento sociale e territoriale non va buttato via, ma non può certo bastarci. Un salto ancorato alle nuove dinamiche di classe e dei suoi movimenti, all’attuale congiuntura di guerra, alle nuove dimensioni tecno-sociali. Organizzarsi a infrastruttura, massificando e articolando i molteplici campi di lotta, conflitto e creazione di autonomie. Infrastrutture socio-territoriali per una politica di massa e internazionalista che possano definire dei codici di sovversione nell’AI planetaria in formazione, codici urbani circolanti fatti di assemblaggi di corpi-territori-macchine-ecologie-metabolismi. Non dei centri né delle community (per quanto, laddove esistano, possano anche essere funzionali all’infrastruttura), ma contro-infrastrutture e contro-connettività da inventare.

Copertina del primo numero di Teiko

©Kevork Djansezian Getty Images